Chiunque operi nel mondo della cybersecurity conosce il concetto di exploit, ovvero una porzione di codice eseguibile che sfrutta una vulnerabilità in un software per far emergere comportamenti non previsti. Un exploit può essere utilizzato, ad esempio, per ottenere privilegi amministrativi su un computer o, in termini più colloquiali, “bucare il sistema”.
Fino a pochi anni fa, l’idea di sfruttare un exploit in un contesto diverso dal software sembrava relegata al regno della fantascienza. Tuttavia, nel 2017, si è aperta una nuova frontiera: la possibilità di utilizzare exploit all’interno di una molecola di DNA. Sebbene possa sembrare uscito da un film futuristico, questa ipotesi è già stata esplorata nel mondo reale.
Il 14 agosto 2017, durante una conferenza a Vancouver (DNA sequencing is vulnerable to this sneaky attack), un team di ricercatori ha presentato uno studio pionieristico nel quale si dimostrava come il DNA potesse essere usato per compromettere un sistema informatico. In particolare, hanno creato un filamento di DNA sintetico che, una volta sequenziato e analizzato da un software bioinformatico, ha eseguito comandi malevoli nel sistema che lo processava, riuscendo così a prenderne il controllo.
Il DNA, nella sua forma più elementare, è una sequenza di informazioni codificate in quattro basi: adenina (A), timina (T), guanina (G) e citosina (C). Queste basi si combinano per formare geni, che contengono le istruzioni necessarie per il funzionamento degli organismi viventi. Gli strumenti di sequenziamento leggono queste informazioni e le traducono in dati digitali per analisi più approfondite. L’intuizione dietro l’exploit genetico è proprio questa: poiché il DNA è una forma di informazione, può essere utilizzato come vettore per trasportare codice malevolo, sfruttando le vulnerabilità nei software bioinformatici incaricati della lettura del genoma.
Nello studio del 2017, i ricercatori hanno dimostrato che, modificando una sequenza di DNA in modo specifico, si poteva indurre il sistema di sequenziamento a eseguire codice arbitrario. Anche se questa vulnerabilità è stata esplorata in condizioni controllate (gli scienziati hanno disabilitato alcune misure di sicurezza e introdotto appositamente falle nel sistema), il concetto apre scenari inquietanti sul futuro della sicurezza informatica in ambito biologico.
Al momento, l’hacking attraverso il DNA non rappresenta una minaccia immediata per la sicurezza informatica. Tuttavia, questo esperimento ha mostrato che, con lo sviluppo delle tecnologie di sequenziamento del DNA e l’incremento dell’uso di software bioinformatici in ambito sanitario e di ricerca, potrebbero emergere nuove forme di bioterrorismo o cyberattacchi. In un futuro non troppo lontano, potrebbe essere possibile sfruttare exploit genetici per compromettere sistemi di analisi medica o persino per manipolare esperimenti di biotecnologia.
Un esempio concreto potrebbe riguardare i laboratori di sequenziamento genetico, che sempre più spesso si affidano a software complessi per gestire e analizzare dati genetici. Se un sistema di sequenziamento venisse compromesso, un attaccante potrebbe potenzialmente sabotare risultati di ricerca o compromettere informazioni sensibili su pazienti e terapie geniche. Questo scenario è particolarmente rilevante nell’era della medicina di precisione, dove il DNA dei pazienti viene sequenziato per sviluppare trattamenti personalizzati. Un attacco malevolo potrebbe distorcere queste informazioni, con conseguenze devastanti sulla salute delle persone.
Dopo lo studio presentato nel 2017, la comunità scientifica e tecnologica ha preso seriamente la possibilità di attacchi attraverso sequenze di DNA. La risposta è stata duplice: da un lato, c’è stato un rafforzamento delle misure di cybersecurity nei laboratori e nelle aziende biotecnologiche, dall’altro, sono stati intensificati gli sforzi per proteggere le infrastrutture bioinformatiche.
Dal punto di vista della protezione, sono state implementate misure come la verifica della provenienza del DNA sintetico e il miglioramento delle misure di sicurezza nei software bioinformatici. Tuttavia, nonostante gli sforzi, la natura complessa e in rapida evoluzione della biotecnologia rende difficile anticipare tutti i possibili vettori di attacco. Il rischio è che, con l’aumento della quantità di dati genetici generati e analizzati, le opportunità per sfruttare vulnerabilità aumentino di conseguenza.
Negli ultimi anni, anche l’adozione di tecnologie come il machine learning e l’intelligenza artificiale ha aumentato l’efficienza dell’analisi genetica, ma ha anche ampliato la superficie di attacco. I sistemi basati su AI possono essere addestrati su grandi quantità di dati genetici, ma se compromessi, potrebbero essere utilizzati per diffondere attacchi su larga scala, come nel caso di malware che sfruttano vulnerabilità genetiche.
Guardando avanti, la sicurezza bioinformatica diventerà sempre più importante. Non solo dovremo affrontare minacce informatiche tradizionali come malware e phishing, ma anche nuove forme di hacking genetico. Questo solleva anche questioni etiche fondamentali: chi sarà responsabile della protezione dei dati genetici e delle infrastrutture che li elaborano? Le aziende tecnologiche? I governi? Gli stessi individui? Le istituzioni saranno in grado di tutelare i cittadini?
Inoltre, il concetto di proprietà del DNA diventerà cruciale. Con il crescente utilizzo di database genetici per la ricerca e l’identificazione personale, la sicurezza di queste informazioni sarà vitale per proteggere la privacy e la salute delle persone. Gli attacchi attraverso DNA sintetico potrebbero non solo colpire i sistemi informatici, ma anche compromettere l’integrità dei dati genetici stessi.
L’esperimento del 2017 ha aperto la strada a nuove riflessioni su cosa significhi proteggere informazioni nell’era della biotecnologia. Sebbene l’hacking genetico non rappresenti ancora una minaccia immediata, i progressi nel sequenziamento del DNA e l’aumento dell’uso di software bioinformatici potrebbero cambiare rapidamente il panorama della sicurezza. La comunità scientifica e tecnologica deve continuare a investire nella protezione delle infrastrutture bioinformatiche per evitare che queste tecnologie vengano sfruttate per scopi malevoli.
Il DNA, una delle più antiche e fondamentali forme di memoria naturale, potrebbe essere al centro delle nuove sfide della cybersecurity del futuro.
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